di Paola Somma
L’apertura della XVII Biennale di Architettura di Venezia, che avrebbe dovuto aver luogo il prossimo 23 maggio, è stata posticipata al 29 agosto.
Un breve nota, diffusa il 4 marzo, specifica che la decisione è stata assunta in conseguenza delle recenti ”misure precauzionali in materia di mobilità, prese dai governi di un numero crescente di paesi del mondo, che avranno effetti a catena sul movimento delle persone e delle opere nelle prossime settimane”.
Il comunicato non menziona né il rispetto delle misure di contenimento dell’epidemia, forse perché l’assembramento è il simbolo e l’essenza del successo della Biennale, né la tutela della salute e dei diritti di tutti coloro che lavorano per allestire e far funzionare l’esposizione.
Oltre ai dipendenti stabili – 75 impiegati, 6 dirigenti, 1 direttore generale il cui compenso annuo ammonta a 170 mila euro – che lavorano in un palazzo sul canal Grande, all’interno dei recinti dei Giardini e dell’Arsenale operano molte imprese esterne e un grande numero di “stagionali” assunti dall’agenzia che somministra il lavoro interinale alla Biennale.
La frammentazione fra i diversi regimi lavorativi si è accentuata a partire dal 1998, quando la Biennale da ente pubblico è stata trasformata in persona giuridica privata, e ancor di più dal 2004, quando è diventata una fondazione, cioè un “soggetto di diritto privato sottoposto alla vigilanza del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo”. Contestualmente, la fondazione è stata riconosciuta di “preminente interesse nazionale” e quindi viene ampiamente finanziata dai contribuenti (20 milioni di euro nell’ultimo bilancio), che in cambio non ricevono nulla, e dalle sponsorizzazioni di alcune multinazionali, da Rolex a Japan Tobacco International, da Swatch a Illycaffè, che usano la Biennale e la città di Venezia come scenario per le loro campagne pubblicitarie.
Inesistente è, invece, il ventilato contributo dei privati, come conferma la relazione della Corte dei conti per l’esercizio 2018, presentata nel gennaio 2020, laddove dice “le disposizioni introdotte dal decreto delegato di riforma dell’ente nel 1998, volte a favorire la partecipazione di soggetti privati ed enti creditizi ad un percorso di promozione della cultura inteso ad affiancare al sostegno pubblico e alle risorse proprie dell’ente capitali privati, sono rimaste sostanzialmente inattuate.”
La spiegazione fornita a proposito della durata di tre mesi del rinvio della inaugurazione è che la nuova data, a ridosso di quella dell’inizio del festival del cinema, è stata scelta perché, abbinando i due eventi, “la Biennale potrà offrire a Venezia e al mondo a fine estate un periodo di grande interesse culturale e di richiamo internazionale”. In altre parole, potrà ricominciare a funzionare come attrattore di grandi flussi turistici e riprendere il suo ruolo di promotore e acceleratore della trasformazione della città in contenitore di eventi e in palcoscenico per le rappresentazioni del potere.
Una visione questa, confermata, il 19 marzo, dal neo nominato presidente Roberto Cicutto che, durante la cerimonia di insediamento del nuovo consiglio di amministrazione, ha detto: “bisognerà trovare soluzioni migliori per continuare la missione della Biennale…. per diffondere le arti contemporanee… senza dimenticare il ruolo della Biennale di fattore di sviluppo e di crescita per la stessa città di Venezia e per il paese”. Ed è una visione fortemente condivisa dal ministro Dario Franceschini che ha nominato come quarto membro del consiglio di amministrazione (il sindaco di Venezia e il presidente delle regione Veneto ne fanno parte per statuto) Claudia Ferrazzi, “manager bergamasca impegnata nella pubblica amministrazione e nella cultura” e che, fra le varie precedenti cariche, vanta quella di essere stata direttrice del marketing territoriale della città metropolitana di Milano.
In questo periodo di forzata chiusura delle sedi fisiche, molti musei e istituzioni culturali si ingegnano per diventare accessibili da remoto, rendendo possibile la visita virtuale alle loro sale, mettendo in rete documenti di archivio, e in qualche caso preparando presentazioni, lezioni, tutorial e workshop appositamente pensati per la situazione. Non tutti i risultati sono eccelsi, ma non mancano i segnali di una riflessione in corso sull’adeguatezza dei consueti format della cosiddetta offerta culturale.
La Biennale è praticamente assente da questo dibattito, e si limita a mettere on line alcuni filmati e immagini d’archivio che ripropongono “i momenti più belli e importanti della sua storia recente e lontana, nonché pillole e anticipazioni della prossima”.
È un peccato, perché “How will we live together”, il titolo proposto da Hashim Sarkis, direttore della Biennale di Architettura di quest’anno, potrebbe essere un ottimo spunto per ragionare sulle responsabilità dell’architettura, come disciplina e come professione, e della Biennale, come vetrina di progetti e come intermediario d’affari immobiliari di grande scala.
Nell’illustrarne il significato, Sarkis ha detto che si tratta di invito agli architetti ad elaborare un “nuovo contratto spaziale che esplori come gli essere umani possano coesistere, malgrado l’iniquità sociale che si allarga e le crescenti diseguaglianze economiche”.
Ribaltando l’assunto su cui si basa l’enunciato e la sua implicita accettazione che l’attuale stato del mondo non possa essere cambiato, ma solo mitigato grazie all’inventiva degli architetti, gli espositori potrebbero approfittare dei tre mesi durante i quali non sarà possibile assembrarsi a Venezia, per chiedersi quale nuovo contratto sociale sia necessario sottoscrivere e applicare per poter disegnare assetti spaziali che facilitino la riduzione delle iniquità e diseguaglianze.
Rinunciare a tale sfida, e aspettare la ripresa del business as usual, sarebbe un sintomo che la Biennale non è stata colpita da un virus destinato a scomparire, ma è affetta da un’infezione cronica e contagiosa.
Fotografia di Paola Somma