di Tomaso Montanari
“Il bello è un quadro tale che lo s i possa mettere nella cella di un condannato all ’ isolamento perpetuo senza che ciò sia un’atrocità, anzi il contrario”.
Mai come in queste settimane di reclusione forzata nelle nostre abitazioni possiamo comprendere la saggezza di questa definizione, che dobbiamo a Simone Weil, una delle voci più alte della filosofia del Novecento.
E se mi chiedo quale quadro vorrei nella mia stanza pensando di non poterne mai più uscire, ebbene ne vorrei uno di quel Raffaello che, quando era vivo, sembrò vincere la natura, e morendo parve far morire con lui la natura stessa. Sono le parole che probabilmente Pietro Bembo dettò per la tomba di Raffaello: che morì, a 37 anni, esattamente mezzo millennio fa, il 6 aprile del 1520. Non è forse l’artista che abita di più il mio spirito (dove Rembrandt, Velázquez, Goya sono di casa…), ma dovendo provare a dire cosa siano il bello, la bellezza (queste parole così pericolose, nelle mani di demagoghi e seduttori di varia natura…), ebbene è il nome di Raffaello quello che affiora alla labbra. Perché la sua – come scrisse Renoir della Madonna della seggiola – “è la pittura più libera, più salda, più meravigliosamente semplice e viva che sia dato di immaginare”.
Raffaello, dunque, merita ogni celebrazione possibile. Ma agli occhi di molti, il cinquecentenario è stato irrimediabilmente rovinato dal Coronavirus, che ha imposto la chiusura della grande mostra delle Scuderie del Quirinale, una settimana dopo che era stata vergognosamente inaugurata (alla presenza del presidente Mattarella) il 3 marzo scorso, a epidemia dilagante. La situazione è, in effetti, degna di un film di fanta-storia dell’arte: alcune delle opere più importanti di Raffaello hanno affrontato viaggi comunque rischiosi per essere chiuse a chiave dove nessuno può goderne. Così sono finite la difficile spartizione che ha grottescamente stabilito al tavolo della politica che Leonardo (il cui cinquecentenario era nel 2019) sarebbe toccato alla Francia e Raffaello all’Italia; tutta la prostituzione dei musei ai grandi e rapaci sponsor; tutte le tonache della coerenza che tanti storici dell’arte hanno buttato alle ortiche pur di esserci; tutta la cieca prepotenza dei superdirettori dei supermusei, che hanno fatto carte false per prestare i Leonardo (vedi l’Uomo Vitruviano di Venezia) e poi i Raffaello: la farina del diavolo, stavolta, è finita in crusca.
Ma perché non provare a trarre una lezione da tutto questo? Con ogni probabilità le mostre saranno tra le ultimissime cose a ripartire: perché è assai difficile imporre un severo distanziamento e ancor più difficile poter definire poi (in caso di nuovi positivi) il primo anello della catena del contagio. Ma mentre per i musei, per le biblioteche, per i cinema, per i teatri – che sconteranno almeno in parte analoghe difficoltà – credo si debba far di tutto, sul piano tecnologico e organizzativo, per provare a ripartire, sulle mostre potremmo davvero ripensarci. Potremmo decidere di passare dalle circa 10 mila mostre che si aprono ogni anno in Italia a farne d’ora in poi solo la centesima parte, cioè un centinaio circa: fino a quando dovremo convivere con questo o altri virus (e potrebbe essere anche non una parentesi, ma una nuova epoca…) il costo organizzativo di una mostra sarebbe esponenziale, e dovrebbe davvero valerne la pena.
Ma, si dirà, Raffaello sarebbe tra gli artisti che comunque la meriterebbero, una mostra, in una occasione come questo tondissimo centenario. Ebbene, no: proprio questo è il punto. La prima categoria di mostre da abbandonare sarebbe proprio quella dei carrozzoni celebrativi costruiti dalla politica: bisognerebbe fare solo le mostre necessarie. Qualunque tema riguardino. Cioè quelle che nascono da un lungo lavoro di ricerca originale, capace di parlare anche al grandissimo pubblico e al contempo di far avanzare significativamente la conoscenza accostando opere che di solito sono separate.
Poco prima di dimettersi, il ministro Lorenzo Fioramonti stabilì che io sostituissi il rappresentante del Miur nel Comitato Nazionale per la celebrazione di Raffaello. Tutto era stato ormai già deciso: il comitato non venne più riunito, e dunque non sono corresponsabile di alcuna scelta. Ma ho potuto almeno leggere i verbali, apprendendo che del milione di euro abbondante che è stato seminato a pioggia, il 90% è stato destinato a … mostre. (E, lo noto per inciso, apprendo anche che non è stata affatto seguita la raccomandazione messa a verbale da uno dei più autorevoli membri del comitato, Silvia Ginzburg, che “esprime perplessità sul fatto di attribuire finanziamenti ad eventi con comitati scientifici nei quali sono coinvolti membri del Comitato”). Cosa avrei proposto io? Di spendere tutto quel milione per parlare di Raffaello in ognuna delle circa 45.000 scuole della Repubblica. Avremmo potuto formare, e pagare decentemente, giovani storici dell’arte capaci di spiegare a tutti perché Raffaello è così importante, e non solo come artista ma anche come autore del primo vero manifesto per la tutela pubblica del patrimonio culturale: quella lettera a Leone X del 1519 il cui manoscritto (vergato da Baldassare Castiglione) lo Stato acquistò nel 2016 su mia segnalazione, e grazie alla capacità di un dirigente esemplare del Mibact, Gino Famiglietti.
In quella lettera, Raffaello scrive che non può tacere degli scempi del patrimonio fatti dai potenti del suo tempo: e che dunque parlerà, “per amore dell’antichità e della verità”. Sarebbe stato un bel titolo e un bel programma per una grande campagna di educazione alla bellezza e alla responsabilità. E sarebbe bello non doverla aspettare altri 100 anni.
Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 6 aprile 2020