di Tomaso Montanari
Tempo di quarantena, tempo di vecchi film e di gustosi remake. Così, al suo settimo rifacimento, il celebre Prigioniero di Zenda diventa il Prigioniero di Zanda. Trama: ad esser preso in ostaggio dal senatore Luigi Zanda, indimenticato portavoce di Cossiga e oggi tesoriere del Pd, è il patrimonio culturale della nazione, che viene conferito ad un fondo e usato come garanzia dei prestiti internazionali per la ricostruzione dell’economia italiana.E se non riusciamo a pagare? «È un’ipotesi a cui non voglio nemmeno pensare», risponde il sagace Zanda. Dopo aver premesso che ci vogliono «idee nuove e molto coraggio», il senatore ha il coraggio di ripresentare un’idea del Tremonti del 2002 (l’ilare commercialista, d’altra parte, l’ha appena rivendicata sul «Corriere»), poi ripresa ed estremizzata nel 2014 da Marchino Carrai (non so se mi sono spiegato).
Di fronte alle obiezioni della giornalista che raccoglie il flusso di coscienza, Zanda calza l’elmetto (eredità del padre: capo della polizia) e proclama: «siamo in guerra». Metafora da proibire, in queste settimane: perché autorizza le più solenni boiate.
Come quella del sindaco Sala, che invece di tacere pensando agli aperitivi sui navigli, annuncia che nel ‘dopo guerra’ Mattarella dovrà convocare una Costituente per riscrivere la Carta.
Proviamo ad essere seri: se una cosa questo dramma ce la insegna, è che la Costituzione va attuata. Per il diritto fondamentale alla salute individuale e collettiva, per la tutela dell’ambiente (capito, signori palazzinari che siete pronti a moltiplicare le betoniere, domani?) e del patrimonio culturale. È lo Stato che bisognerà ricostruire, perché tenga in piedi il Paese: impegnare i gioielli di famiglia, invece, è un atto di disperazione, cui di solito segue il suicidio. Ma per fortuna siamo al cinema: e, alla fine, il prigioniero di Zanda evade.
Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata in “Il Fatto Quotidiano”, 31 marzo 2020
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