Un quadro per fare silenzio nella città della nostra anima

di Tomaso Montanari

Le nostre città deserte sono sprofondate nel silenzio. In queste notti di vento forte, anche portare fuori il cane a tarda sera per le vie di Firenze è inquietante: ad ogni cigolìo, ad ogni minimo rumore, un brivido sale lungo la schiena. Ma tutto il caos sparito dalle strade si è spostato nelle nostre case, connesse ormai per tutto il giorno.

E ancora di più nelle nostre teste: affollate di domande angosciate, e dalle false risposte che una legione di sedicenti esperti rovescia ad ogni minuto in qualunque trasmissione, in ogni pagina della rete. Perché tanti morti in Lombardia? Il caldo metterà il virus fuori circolazione? I guariti sono immuni? E ancora: si poteva, si doveva fare di più, meglio? Cosa succederà nei paesi governati da pazzi criminali che hanno fatto finta di non vedere? E, su tutte, quando finirà? Come sarà, dopo? Quando torneremo a dormire su un prato, a cenare sulla spiaggia: quando torneremo a Londra o a New York? Ora, davvero nessuno conosce le risposte a queste domande, e dopo un mese di sovraesposizione televisiva quotidiana, francamente è impossibile distinguere il più serio degli scienziati dal più sfacciato spacciatore di fake news. E poi ci sono le domande le cui risposte sono invece evidenti, ma che fanno sentire ancor più impotenti (com’è possibile che continui ad essere ascoltato chi ha massacrato la sanità pubblica? Come può essere consentito a industriali e a politicanti senza pudore di proclamare ogni giorno l’urgenza di scegliere la borsa, calpestando la vita?). Infine, quelle terribili di chi sta perdendo tutto (come pagherò l’affitto il mese prossimo? Quale lavorò troverò poi?), o di chi nulla ha mai avuto (come mi lavo le mani in un campo Rom senza acqua? Come posso restare in casa se sono un “senza-casa”? Chi si curerà di noi, qui in carcere?).

Ebbene, come tutti, non ho risposte. E con questo alveare che mi ronza in testa non riesco, scusate, ad apprezzare le esortazioni da buddista della domenica del presidente del Consiglio, che invita gli italiani (evidentemente non quelli che si pongono le ultime domande che ho elencato…) ad approfittare della quarantena per conoscere meglio se stessi. Ha scritto assai bene Nadia Fusini: “Se al ‘distanziamento sociale’ imposto ubbidisco è perché gli riconosco questo fondamento morale. Serve a proteggere l’altro. Ma mi privo della mia libertà personale – sacra in ogni ordinamento democratico – solo temporaneamente, e lo faccio perché il mondo in cui vivo, malgrado il suo alto livello di sviluppo tecnologico, ne ha bisogno; perché nel frattempo una politica locale dissennata ha distrutto la sanità, e una politica mondiale equilibri naturali fondamentali. Ma deploro chi spontaneamente si flette e genuflette, e addirittura esalta, il bene della segregazione”. E dunque, che si può fare? Condividere spazi di silenzio interiore, per esempio. Mettere in comune isole di rarefazione, luoghi di cura dell’anima: perché anche l’anima soccombe in questa epidemia di rumori.

E dunque, Chardin. E dunque un vaso di fiori (l’unico oggi noto tra i vari che dipinse): perché mai come oggi le case avrebbero bisogno del sorriso fragile e generoso dei fiori. Jean-Baptiste Siméon Chardin (Parigi 1699-1779) fu forse l’artista più grande dell’Europa del suo tempo: i suoi occhi, che ci fissano sornioni dietro le spesse lenti che indossa negli autoritratti, riuscivano a scorgere negli oggetti e nei piccoli ambienti chiusi e borghesi valori morali e implicazioni esistenziali che forse solo quelli di Vermeer erano riusciti a vedere. Figlio di un ebanista specializzato in biliardi, Chardin seppe tradurre in altissima poesia la fascinazione per gli oggetti che caratterizzava l’arte rococò. I risultati furono epocali: quello dei quadri di Chardin è un silenzio che le parole non riescono a lacerare. Denis Diderot lo chiamava “il mago delle emozioni mute”. Di fronte ai suoi quadri – continuava il filosofo – “l’occhio si ricrea, perché tutto è calma, e riposo. Ci si ferma davanti a uno Chardin come d’istinto, come un viaggiatore stanco si siede, senza nemmeno accorgersene, dove trova un’oasi di verde, di silenzio, d’acqua, d’ombra, di fresco…”. Silenzio è la parola chiave.

Il Dictionnaire des arts de peinture, sculpture et gravure di Watelet e Lévesque ( 1792), scrive: “Si dice che in un quadro c’è un grande silenzio, un bel silenzio, per dire che la composizione ha l’effetto di mettere l’anima dello spettatore in uno stato di calma del quale godere”. Ed è così anche per noi, oggi: attraverso il suo silenzio, il suo spazio, il suo colore muto, Chardin ci aiuta a fare silenzio nella città della nostra anima. Non ci chiediamo cosa significhi questo vaso: è un piccolo, elegante vaso di porcellana di Delft, bianco e azzurro. E i fiori di primavera che lo coronano non alludono a misteri, non fanno domande: sono quello che sembrano. Fragile gioia di vivere, spazio di pace, lenimento per l’anima inquieta. Colore magico di un mago del silenzio. Quel che davvero sentiamo, di fronte a questo vaso di fiori di quasi 300 anni fa, è ciò che Paul Cézanne chiamerà il misterioso “pulviscolo di emozioni che avvolge gli oggetti”: un’atmosfera carica di sentimenti umani che Cézanne riusciva a vedere solo nei quadri di Chardin. Composizioni semplici, austere: ma monumentali sul piano morale, specchi magici capaci di far apparire la nostra umanità nascosta.

Qualunque sia la risposta alle tante domande che urlano nella nostra testa, una cosa è sicura: se restare a casa è doveroso, restare umani è vitale. A questo serve un po’ di silenzio interiore.

Articolo pubblicato in “Il Fatto Quotidiano”, 30 marzo 2020

Immagine in evidenza da Wikimedia Commons: Jean-Baptiste Siméon Chardin, Vaso di fiori (particolare), 1760 ca.

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