Sandro Roggio, La tutela dei beni comuni nel tempo della crisi

I beni culturali nelle mire della poliedrica speculazione: la  somma  concorre da tempo  al degrado progressivo del BelPaese. Del quale non resterà che l’etichetta di

un formaggio, prevedeva Antonio Cederna,  pessimista sulla  resistenza civica a fronte di aggressioni incalzanti e benviste dalla politica. Basta voltarsi un attimo  e si scopre un nuovo assalto. Così l’accumulo  del  patrimonio comune si assottiglia, perché ogni aggressione qualcosa sottrae.

La  linea del partito del sì-a-tutto è sempre più sfrontata. Generare sviluppo dalla devastazione. è ormai lo slogan che sostituisce l’ammiccante  e sviante esortazione alla crescita compatibile.  Il presupposto è che tutto sia dovuto a chi fa girare un po’ di soldi. Pure quando si mettono  a repentaglio  monumenti o  pezzi di natura superstiti, magari per  la coreografia.

Ce n’è  ( ce n’era) per tutti. Per la piccola ditta col mirino di precisione –  puntato verso quel palazzo storico da manomettere, o quella scogliera da trasformare in piedistallo di brutte case. Ce n’è per le  società  provette in grandi infrastrutture inutili, che fanno conto sul buon cuore di chi decide; e sui tempi lunghi delle lavorazioni, tipo quelle che occorrono per  bucare una montagna.

Su Emergenza Cultura ricorrono gli appelli per difendere luoghi e manufatti preziosi.  In  ogni  articolo ci sono spunti utili  per spostare lo sguardo e interrogarsi: in qualunque  territorio o città  non mancano le  occasioni.

Nello sfondo la  domanda su cosa possiamo aspettarci dalla politica compiaciuta per la calca attorno alla mercanzia. Il messaggio della svendita – dalle Alpi alla Gallura – si è diffuso per via delle complicità in tanti palazzi. I  compratori trattano con alterigia  i potenziali venditori;  e organizzano cortei per dimostrare che  il popolo stremato sta con chi agisce pure contro l’interesse pubblico. Il  dissenso ostacola il progresso e l’economia europea, voleva dimostrare la manifestazione di Torino sì Tav appaltata alle signore dalle buone maniere.

Una delle tante messinscena accreditate dall’ambiguità della politica. Serve insistere perché si faccia chiarezza, specialmente da parte dei discendenti  del più grande partito della sinistra che fu,  oggi senza bussola, mentre la sinistra possibile guarda all’ ambientalismo (come  Sanders,  Corbyn, Podemos, i Verdi tedeschi ) e si schiera contro le trasformazioni territoriali vantaggiose solo per chi concorre alla loro realizzazione. Una  parte del PD  è stata in questi anni – troppe volte –  contigua a istanze di destra.  Anche con l’abiura dell’art. 9 Cost, un picco da parte dello schieramento guidato da Renzi fino a poco tempo fa. Condiscendenza alle istruzioni da Palazzo Grazioli. Penso ai pianicasa evocati da Berlusconi e realizzati al volo da governi regionali votati da elettori di sinistra.

Le regioni, appunto.

Posso incominciare a dire della Sardegna,  dove i  beni culturali a rischio – specialmente paesaggistici –  eccitano speculatori  in genere molto assecondati,  da cui il grafico dei sì-  il picco  massimo dei signorsì nelle concupite fasce costiere. Da cui lo squilibrio territoriale dell’isola, le coste abitate d’estate il vuoto a qualche km verso l’interno,  il paradosso del  dissesto  idrogeologico   causato da una quantità di manomissioni e violazioni fuori misura rispetto alla bassissima densità di popolazione.

Su questo esito ha influito il ritardo della sinistra. Nell’isola il Pci-Pds-DS  non è stato ambientalista, o lo è stato in  modi  circospetti, sfuggenti, mai in decisa controtendenza alla  propensione democristiana (così per comodità di sintesi) di lasciare fare chi avrebbe portato i sardi oltre la storica condizione di povertà,  utile peraltro ai ricattatori di turno.

Con un paio di eccezioni. Luigi Cogodi negli anni Ottanta: assessore comunista in una giunta di sinistra e sardista  audace nella opposizione allo strazio dei litorali.  Rimasto per questo in minoranza con una pattuglia di compagni ed emarginato da compiti di governo: a monito di chiunque avesse osato discutere il centralismo sviluppista.

Era tuttavia servito lo sforzo per  spiegare il valore delle aree  prossime al mare, la necessità di conservare  le suggestioni  in quel passaggio graduale dalla terra- sabbia all’acqua. Una ventina di anni dopo Renato Soru. Aveva rianimato e avvallato con atti quel progetto minoritario,  continuamente sgambettato dal  gruppo  forte nel PD, cappeggiato dalle new entries estranee alla origine postcomunista.

Dalla archiviazione ( o quasi)  del contrattempo Soru, la normalizzazione del  PD sardo,  alleato  con i vertici romani per sedare ogni intralcio allo sviluppo,  com’è ad esempio nelle tesi  “SbloccaItalia”. In questo solco  il governo della Regione Autonoma nell’ultimo quinquennio:  condizionato dalla visione di Confindustria- ANCE. Stop alle intemperanze del tempo di Soru ( la Conservatoria delle Coste) e via libera al tentativo  – fallito – di approvare una legge per ammansire il Piano paesaggistico.

Tra pochi mesi si voterà per il rinnovo del Consiglio regionale: con questo retaggio. La  costruzione delle alleanze del centrosinistra vanno avanti tutta senza precauzioni,  a fari spenti: con poca chiarezza  sui temi  più impegnativi, tipo il governo del territorio sul quale si gioca un pezzo della partita. Auspicabile che  si vada oltre  l’evocazione della sostenibilità ambientale, espressione poco vincolante perché tutto potrà essere dichiarato ammissibile

Resta una domanda sulla rappresentanza impossibile (?) di chi pensa che serva una sinistra che metta ai primi punti del programma il buon governo del territorio e la tutela del beni culturali. Forse c’è ancora qualche possibilità, ma chissà.

 

 

 

 

 

 

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