I beni culturali nelle mire della poliedrica speculazione: la somma concorre da tempo al degrado progressivo del BelPaese. Del quale non resterà che l’etichetta di
un formaggio, prevedeva Antonio Cederna, pessimista sulla resistenza civica a fronte di aggressioni incalzanti e benviste dalla politica. Basta voltarsi un attimo e si scopre un nuovo assalto. Così l’accumulo del patrimonio comune si assottiglia, perché ogni aggressione qualcosa sottrae.
La linea del partito del sì-a-tutto è sempre più sfrontata. Generare sviluppo dalla devastazione. è ormai lo slogan che sostituisce l’ammiccante e sviante esortazione alla crescita compatibile. Il presupposto è che tutto sia dovuto a chi fa girare un po’ di soldi. Pure quando si mettono a repentaglio monumenti o pezzi di natura superstiti, magari per la coreografia.
Ce n’è ( ce n’era) per tutti. Per la piccola ditta col mirino di precisione – puntato verso quel palazzo storico da manomettere, o quella scogliera da trasformare in piedistallo di brutte case. Ce n’è per le società provette in grandi infrastrutture inutili, che fanno conto sul buon cuore di chi decide; e sui tempi lunghi delle lavorazioni, tipo quelle che occorrono per bucare una montagna.
Su Emergenza Cultura ricorrono gli appelli per difendere luoghi e manufatti preziosi. In ogni articolo ci sono spunti utili per spostare lo sguardo e interrogarsi: in qualunque territorio o città non mancano le occasioni.
Nello sfondo la domanda su cosa possiamo aspettarci dalla politica compiaciuta per la calca attorno alla mercanzia. Il messaggio della svendita – dalle Alpi alla Gallura – si è diffuso per via delle complicità in tanti palazzi. I compratori trattano con alterigia i potenziali venditori; e organizzano cortei per dimostrare che il popolo stremato sta con chi agisce pure contro l’interesse pubblico. Il dissenso ostacola il progresso e l’economia europea, voleva dimostrare la manifestazione di Torino sì Tav appaltata alle signore dalle buone maniere.
Una delle tante messinscena accreditate dall’ambiguità della politica. Serve insistere perché si faccia chiarezza, specialmente da parte dei discendenti del più grande partito della sinistra che fu, oggi senza bussola, mentre la sinistra possibile guarda all’ ambientalismo (come Sanders, Corbyn, Podemos, i Verdi tedeschi ) e si schiera contro le trasformazioni territoriali vantaggiose solo per chi concorre alla loro realizzazione. Una parte del PD è stata in questi anni – troppe volte – contigua a istanze di destra. Anche con l’abiura dell’art. 9 Cost, un picco da parte dello schieramento guidato da Renzi fino a poco tempo fa. Condiscendenza alle istruzioni da Palazzo Grazioli. Penso ai pianicasa evocati da Berlusconi e realizzati al volo da governi regionali votati da elettori di sinistra.
Le regioni, appunto.
Posso incominciare a dire della Sardegna, dove i beni culturali a rischio – specialmente paesaggistici – eccitano speculatori in genere molto assecondati, da cui il grafico dei sì- il picco massimo dei signorsì nelle concupite fasce costiere. Da cui lo squilibrio territoriale dell’isola, le coste abitate d’estate il vuoto a qualche km verso l’interno, il paradosso del dissesto idrogeologico causato da una quantità di manomissioni e violazioni fuori misura rispetto alla bassissima densità di popolazione.
Su questo esito ha influito il ritardo della sinistra. Nell’isola il Pci-Pds-DS non è stato ambientalista, o lo è stato in modi circospetti, sfuggenti, mai in decisa controtendenza alla propensione democristiana (così per comodità di sintesi) di lasciare fare chi avrebbe portato i sardi oltre la storica condizione di povertà, utile peraltro ai ricattatori di turno.
Con un paio di eccezioni. Luigi Cogodi negli anni Ottanta: assessore comunista in una giunta di sinistra e sardista audace nella opposizione allo strazio dei litorali. Rimasto per questo in minoranza con una pattuglia di compagni ed emarginato da compiti di governo: a monito di chiunque avesse osato discutere il centralismo sviluppista.
Era tuttavia servito lo sforzo per spiegare il valore delle aree prossime al mare, la necessità di conservare le suggestioni in quel passaggio graduale dalla terra- sabbia all’acqua. Una ventina di anni dopo Renato Soru. Aveva rianimato e avvallato con atti quel progetto minoritario, continuamente sgambettato dal gruppo forte nel PD, cappeggiato dalle new entries estranee alla origine postcomunista.
Dalla archiviazione ( o quasi) del contrattempo Soru, la normalizzazione del PD sardo, alleato con i vertici romani per sedare ogni intralcio allo sviluppo, com’è ad esempio nelle tesi “SbloccaItalia”. In questo solco il governo della Regione Autonoma nell’ultimo quinquennio: condizionato dalla visione di Confindustria- ANCE. Stop alle intemperanze del tempo di Soru ( la Conservatoria delle Coste) e via libera al tentativo – fallito – di approvare una legge per ammansire il Piano paesaggistico.
Tra pochi mesi si voterà per il rinnovo del Consiglio regionale: con questo retaggio. La costruzione delle alleanze del centrosinistra vanno avanti tutta senza precauzioni, a fari spenti: con poca chiarezza sui temi più impegnativi, tipo il governo del territorio sul quale si gioca un pezzo della partita. Auspicabile che si vada oltre l’evocazione della sostenibilità ambientale, espressione poco vincolante perché tutto potrà essere dichiarato ammissibile
Resta una domanda sulla rappresentanza impossibile (?) di chi pensa che serva una sinistra che metta ai primi punti del programma il buon governo del territorio e la tutela del beni culturali. Forse c’è ancora qualche possibilità, ma chissà.