A Cassano dello Ionio, nella frazione di Sibari, località Parco del Cavallo e Casa Bianca, in provincia di Cosenza ci sono i resti di una delle più ricche e importanti città greche della Magna
Grecia, Sibari, sulla quale s’impiantarono prima il centro ellenistico di Thurii e poi quello romano di Copia. Il Parco archeologico, anche un luogo che testimonia capacità, tenacia e modernità di molti rappresentanti dell’archeologia italiana tra la fine dell’Ottocento e il Novecento. Una storia di indagini iniziata nel 1879 e pressochè completate tra il 1969 e il 1976.
Peccato che quella di Sibari sia, soprattutto recentemente, una storia travagliata da dissesto idrogeologico e alluvioni. Nel 2013 lo straripamento del fiume Crati riversò sull’area oltre 250mila metri cubi di acqua, fanghi e detriti. Un autentico disastro.
“Sono state eseguite opere definitive che non solo hanno recuperato tutto quello che era conservato nel parco ma che d’ora in poi lo tuteleranno e lo valorizzeranno con sistemi e tecnologie innovative, per offrirlo ai visitatori in tutta la sua bellezza”, spiegava nel febbraio 2017, dopo la riapertura del sito, Salvatore Patamia, segretario regionale del Ministero dei Beni culturali.
Dopo quattro anni di chiusura e 18 milioni di euro impiegati per la sua restituzione, Sibari sembrava rinascere a nuova vita. Sembrava, infatti. Perché a distanza di meno di due anni, alla fine di ottobre, ecco un nuovo allagamento. L’area nuovamente ricoperta dall’acqua. Ma questa volta nessuno straripamento. La causa “le recenti copiose piogge degli ultimi giorni ma potrebbe essere legato ad un cattivo funzionamento delle trincee drenanti. Il maltempo degli ultimi giorni potrebbe avere mandato in tilt anche il gruppo elettrogeno che alimenta l’intero parco archeologico”, ha spiegato all’Ansa la direttrice dell’area archeologica di Sibari, Adele Bonofiglio. Insomma sul banco degli imputati ci sono le trincee drenanti, uno dei sistemi di valorizzazione del Polo, progettato da Invitalia nell’ambito di Progetto pilota strategico Poli museali di eccellenza nel Mezzogiorno, promosso dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e dall’ex Dipartimento per lo Sviluppo e la Coesione Economica.
Trincee drenanti, per contrastare gli effetti della risalita delle acque di falda nel Parco. “Un sistema che smaltisce l’acqua dei terreni, migliora la manutenzione degli scavi e salvaguarda l’area archeologica in caso di alluvioni”, si legge sul portale di Invitalia. Quel che è accaduto non sembra propriamente confermare gli auspici di chi ha curato la progettazione preliminare e definitiva dell’ intervento. Il nuovo disastro sembra dare ragione a quanti tra gli addetti ai lavori hanno avanzato fin da subito delle perplessità sull’efficacia delle trincee drenanti.
“In attesa di ripristinarle bisognerà riattivare il vecchio sistema well point, salvo riparare la centralina Enel che ne consente il funzionamento. Quest’ultima, apprendo dalla Direttrice del Polo Museale della Calabria, Angela Acordon, messa forse fuori uso da un fulmine durante lo stesso evento atmosferico estremo che ha allagato il parco, era stata già riparata nei mesi scorsi (con una spesa di quasi 20.000 euro), dopo un guasto di natura, invece, alquanto dubbia”, ha dichiarato la senatrice grillina Margherita Corrado, la quale ha aggiunto che “Occorreranno oltre 5000 euro per il nuovo intervento”.
Che sia necessario provvedere al ripristino del sistema drenante non ci sono dubbi. Ma è anche importante provare a fare i conti con l’inefficacia dell’ “operazione trincee drenanti”. Operazione che per la sua realizzazione ha comportato anche la necessità dello stravolgimento di alcune porzioni dell’area archeologica. A partire dal sito nel quale erano i resti di un grande asse stradale. Sito prescelto per il posizionamento della vasca connessa al funzionamento delle trincee. Naturalmente i diversi interventi sono stati effettuati sotto la sorveglianza archeologica di professionisti incaricati dal Mibact.
Peccato che si sia trattato di “Una sorveglianza blanda … perché tale fu l’imposizione venuta direttamente dai vertici regionali del MiBACT, con tanto di nota ufficiale, pochi giorni dopo l’avvio dell’attività stessa. Nonostante l’ordine ivi impartito agli archeologi di tollerare, all’interno di un parco, ciò che fuori dall’area demaniale e da parte di un committente privato non sarebbe stato mai consentito, vestigia di Copia e di Thurii – non furono raggiunte quelle di Sibari – emersero con tale monumentalità da imporre varianti sostanziali al progetto originale”. Le parole della senatrice-archeologa Corrado, nel 2013 incaricata dall’allora Direzione Regionale di svolgere la sorveglianza archeologica durante la realizzazione delle prime trincee, molto più che una testimonianza. Piuttosto l’incontrovertibile indizio che quelle trincee erano più importanti di tutto. Forse anche più dell’area archeologica che avrebbero dovuto preservare.
Non è tutto. Anche volendo tralasciare le contrarietà di carattere tecnico provocate dalla loro messa in opera, le trincee hanno comportato un considerevole impegno di risorse. Senza che venisse realmente risolto il problema dell’area. La risalita delle acque di falda. L’ennesimo disastro, dopo i due allagamenti. Al punto che la Corrado chiede “provocatoriamente di procrastinare pressoché sine die la chiusura del Parco”. Un atto estremo, nel tentativo di progettare quel che serve a Sibari.
“La vicinanza di Metaponto, Policoro e Matera rende oggi Sibari ancora più strategica, ma per il suo totale rilancio sarà necessario l’intervento di ministero, enti locali e tour operator. Sibari entrerà nella rete delle aree archeologiche: rappresenta del resto la scommessa del ministro Dario Franceschini che ha separato la loro tutela dalla valorizzazione, proprio per imprimere maggiore forza a iniziative di rilancio dei siti archeologici”, dichiarava ancora Salvatore Patamia nel febbraio 2017.
Per ora lo Stato ha fallito. Dopo aver speso 18 milioni di euro.