La Sardegna non è priva di regole urbanistiche. Nessun vuoto legislativo protratto, come ci ripetono i profeti del nuovo corso: le disposizioni approvate tra il 1989 e il 1993 erano in sintonia con le innovazioni dell’ Ordinamento statale, come la legge Galasso. Ha fatto la sua parte il Ppr arrivato in soccorso nel 2006 più saldo di una legge, purtroppo limitato al sistema litoraneo.
Un quadro di regole migliorabili. Ma nessun impedimento a fare cose buone e belle per l’isola. Come la riqualificazione di centri storici e periferie, la costruzione di case popolari, di cantine vitivinicole, di ovili e caseifici, di fabbriche non inquinanti. Cosa c’entra la LR 45/89 col paradosso dell’isola poverissima d’infrastrutture e in cima alla classifica degli abusi edilizi?
Non ho mai sentito i sindaci di paesi spopolati imputare il declino all’incertezza delle regole. O qualche studioso addossare al Ppr la colpa dei ritardi nell’ adeguamento della pianificazione locale. Anche perché alcuni comuni con le carte in regola ci sono, ma nessuno si è incuriosito di sapere come abbiano fatto.
La spiegazione dell’indolenza di questi dieci anni è oltre ogni comoda e sfilacciata retorica. Prima – governo Cappellacci – il tentativo (fallito) di un contro-riformato piano paesaggistico, surrogato da un piano-casa extralarge. Poi – governo Pigliaru – il ritardo nel completamento del Ppr (di cui non si sa più nulla), nello sfondo l’invocazione di una legge riparatrice dell’ integralismo del tempo di Soru; e nel frattempo un piano-casa più attillato di quello della destra. Tacite larghe intese.
Messaggi ricevuti a Alghero, Olbia, Arzachena ( e dagli altri comuni delle galoppate edilizie collegate al turismo). Facile tergiversare nel solco della disobbedienza di trent’anni e più. Nell’ attesa della catarsi normativa c’è chi ha potuto tenersi stretti piani ultrapermissivi sommando antiche franchigie a rinnovate deroghe. Così il tempo perso è tempo guadagnato- direbbe De Tocqueville.
E comunque benvenuta una nuova legge. Sperando che non sia compiacente, neanche un po’, con la tesi di Confindustria (<La Nuova Sadegna> del 7 agosto). Secondo la quale “ le norme urbanistiche si devono adattare al mercato”. Roba da fare impallidire i più devoti al Pil nel Palazzo, alcuni dei quali non avrebbero difficoltà a spiegare che l’urbanistica – guarda un po’ – è nata per tutelare il bene comune nel conflitto tra rendita ed interesse pubblico.
Tacciono mentre soffia il vento appiccicoso della denigrazione: gli oppositori alla destabilizzazione delle regole additati come bizzarri chierici della imbalsamazione del Ppr che – udite-udite – secondo il Codice dovrebbe essere periodicamente revisionato-adeguato. Non può farlo astrattamente il legislatore regionale, ha detto la Corte Costituzionale. Censurando di recente la Regione sarda, per una distorta pretesa di sindacare sulla trasformazione di beni tutelati. Neppure zerovirgola senza l’intesa con lo Stato. E chi minimizza la portata della sentenza aggrava la figuraccia e accresce il rischio che si ripeta.
Riprendera tra poco il confronto politico sulla nuova legge urbanistica, Sul testo del ddl uscito dalla IV Commissione del Consiglio Regionale c’è chi avanza dubbi d’incostituzionalità e sulla coerenza dell’impianto (condiviso dai sindaci?). Nell’attesa preoccupata della versione finale, viste le turbolenze nel PD e alleati, e mentre s’ immagina una sventagliata di emendamenti ispirati da Briatore intervistato dai giornali sardi (che lottizzerebbe e urbanizzerebbe pure il cielo, “si su chelu fit in terra”. Se il cielo fosse in terra – è uno dei versi di un poeta sardo poco dopo l’entrata in vigore dell’ Editto delle chiudende.
Sull’ epilogo – i ritocchi sicuramente peggiorativi – influiranno le contraddizioni del centrosinistra isolano che dovrebbe riflettere sul senso della immodificabilità dei beni tutelati del Paese. Tra cui la fascia costiera sarda nella quale non deve sorprendere il divieto all’ampliamento in deroga di un albergo, come nel Canal Grande o in Campo dei Fiori o in Val d’Orcia. Non c’è discrezionalità ammissibile nel nome del mercato. Non solo perché la tutela del paesaggio è “un valore a cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente”- spiega la Corte. Ma in quanto un precedente aprirebbe, nel nome del Pil, la strada all’arbitrio forever: la giostra di deroghe su deroghe indipendentemente dai valori paesaggistici.