Venderla agli stranieri? O forse l’abbiamo già venduta? Venezia è vittima della sua straordinaria bellezza. Presa d’assalto da orde di turisti, capitale dei bed & breakfast, ostaggio delle grandi navi da crociera. Viverci è diventato quasi impossibile, racconta uno scrittore tornato nella sua città.
È mezzanotte, cammino per le calli di Post-Venezia. Sono quasi arrivato, scendo i
gradini di un ponte, giro sulla fondamenta, la strada a ridosso del canale. Sotto il lampione qualcuno mi sbarra il passaggio. La riconosco: è una pantegana grossa, un topastro che abita sotto casa mia. «Non scappare, non ti faccio niente», le dico. «Vorrei solo sapere come fate a sopravvivere qui». Mi guarda diffidente. Poi decide di parlare: «Il nostro popolo ha una possibilità che voi non avete». «Quale?». «Questa», dice, e per completare la risposta non aggiunge parole ma un guizzo: si infila in un tombino e sparisce.
È vero. Noi veneziani non abbiamo scappatoie sotterranee. Siamo senza inconscio. Venezia è costruita tutta in superficie, è appoggiata sul fango, i suoi abitanti sono le persone più superficiali del mondo: non vuol dire che siano frivoli, ma sono costretti a fare i conti con la realtà esteriore, senza nicchie dove rintanarsi a preservare la loro identità. Le altre città hanno metropolitane, cantine, catacombe, bunker. Qui non ci sono rifugi antituristi per proteggersi dai bombardamenti aerei di comitive low cost. E nemmeno quartieri di decompressione intorno al centro, come a Firenze o a Roma. Venezia è un centro storico ritagliato con le forbici e piazzato in mezzo all’acqua. Non c’è scampo. Trenta milioni di turisti all’anno, in una post-città in cui tutto è sempre di più in funzione loro. Gli abitanti sono sempre di meno. Oggi siamo cinquantatremila. Come Gallarate, Velletri, Aversa. Venezia è già stata venduta. Intorno a San Marco il 99% dei ristoranti è gestito da cinesi, albanesi e mediorientali. Nel resto della città solo la metà è in mano a imprenditori locali (i dati sono dell’associazione Gruppo 25 Aprile).
Ma non voglio fare piagnistei. Vado a parlarne con chi ne sa più di me. «Guarda che negli Anni Ottanta gli studiosi prevedevano che oggi saremmo stati ventimila. Se non è così è perché il Comune ha fatto delle politiche di sostegno agli abitanti, costruendo e acquistando case, dando contributi ai cittadini per affitti e restauri». Chi mi parla è Gianfranco Bettin, scrittore e politico, che in passato ha fatto parte di alcune giunte comunali. Sono andato a trovarlo nel suo ufficio di presidente della municipalità di Marghera. Gli chiedo quanto costa Venezia, chi la paga. Mi spiega come funziona un bilancio comunale, ma a un certo punto si alza e si avvicina alla gigantografia incollata alla parete. È una foto della laguna veneta, con l’acqua bluastra venata da flussi melmosi. Gianfranco indica l’incrostazione rosacea al centro, a forma di pesce. Sta per dirmi qualcosa di solenne. Se potesse me lo farebbe scolpire nella pietra, altro che taccuino. «Al di là di tutto, c’è una cosa che proprio non si riesce a far capire fuori da Venezia». Tiro fuori lo scalpello e incido lettera per lettera le sue parole: «Questa meraviglia frutta al Veneto, all’Italia e all’Europa prestigio, autorevolezza e ricchezza: non solo ricchezza culturale, proprio soldi. Ma per costruire Venezia e mantenerla in piedi c’è voluto un impero grande come mezzo Mediterraneo, la Serenissima Repubblica. Non si può pensare che una città del genere ce la faccia da sola. Bisogna sostenerla. Venezia è il risultato di risorse che non possono essere prodotte dalla città. Questo spiega il dramma degli ultimi dieci anni, quando lo Stato ha di fatto azzerato i finanziamenti che le sono necessari, mettendola in ginocchio. La legge speciale del 1973, che ha alimentato la città, è stata pensata non soltanto per difenderla dall’acqua alta, ma per mantenere viva la sua popolazione. Perché una Venezia in salute produce ricchezza per tutta Italia».
A dargli ragione sono i fatti. A cominciare dalla cronaca. In questi giorni la Regione Veneto ha deciso di cambiare il suo marchio promozionale: verrà pubblicizzata nel mondo come “La Terra di Venezia”, The Land of Venice. E l’anno scorso la mostra di arte contemporanea più costosa al mondo, del più ricco artista vivente, è stata fatta qui. Pensateci: Damien Hirst avrebbe potuto allestire il suo kolossal in qualunque altro posto del pianeta. Perché non a Shanghai, Londra, Miami, Dubai? Semplice, Hirst ha applicato questa formula aritmetico-finanziaria: Merce x Venezia = Valore. Venezia moltiplica il valore delle cose (e più spesso il loro prezzo). Dà lustro e immagine. Nuove fondazioni culturali straniere continuano ad aprire qui le loro sedi. Ma quel che prolifera più di ogni altra cosa sono bar e ristoranti, ristoranti e bar. È inutile parlare di politica, quando tutto è in mano al mercato e alla liberalizzazione senza freni. Qualche spiraglio lo darebbe il decreto 222 della ministra Madia: da novembre 2016 i Comuni finalmente hanno uno strumento giuridico, possono negare i permessi a botteghe e locali che non siano in armonia con i centri storici.
Chi è più in armonia con Venezia di un gondoliere? Faccio due passi con uno di loro, gli chiedo come ha visto cambiare le cose in questi anni. «Di lavoro ce n’è. Però è frammentato: si imbarcano le persone per la mezz’ora standard prevista e, finita quella, stop, avanti il prossimo. Ai turisti più che altro facciamo vivere l’emozione dello stare in gondola. Che è sempre un’esperienza bellissima, sia chiaro. Ma non è come usare la barca davvero, per raggiungere una destinazione. Una volta facevo giri lunghi: tutto il Canal Grande, e il ritorno nei rii interni. La clientela era più colta. Qualcuno mi chiedeva itinerari precisi, da una tal chiesa a un’altra, secondo i suoi interessi artistici e architettonici». Gli domando se non li farebbe volentieri anche oggi. «Chi se la sente di sfidare le onde? Le barche da trasporto che riforniscono di cibo i ristoranti sono sempre di più, c’è un traffico continuo. In certe acque non mi azzardo ad andarci. Quando devo portare la gondola al cantiere per la manutenzione, una volta all’anno, prima di attraversare il canale della Giudecca lascio a riva telefono, portafogli e documenti». Perché? «Ho paura di rovesciarmi e perdere tutto».
Esco di casa alle otto del mattino, mi fermo a fare due chiacchiere con un gabbiano reale. Ha appena assalito un piccione, lo sta squartando sul selciato; una scenetta che in questi anni è diventata normale. «Non credere che sia una deriva recente», mi dice il gabbiano. «È da quando il potere del mondo si è spostato dal Mediterraneo all’Atlantico che Venezia si è dovuta reinventare. Dal Seicento in poi è diventata una specie di Las Vegas, di Broadway, con teatri, bische, caffè, concerti; il Carnevale durava quattro mesi mica perché i veneziani fossero festaioli: i ricchi stranieri avevano il permesso di girare mascherati, spassandosela in incognito, così erano invogliati a venire qui a spendere il più possibile. Il progetto industriale di Marghera è stato solo una parentesi novecentesca. Ormai siete tornati all’“industria del forestiero”, come chiamavano un secolo fa l’economia basata sul turismo».
Il gabbiano rapace mi fa venire in mente quelli raccontati da Maurizio Dianese: per Il Gazzettino ha scritto decine di articoli sulla gestione illegale del Tronchetto. È un’isola artificiale che ha appena cinquant’anni, annessa alle soglie di Venezia. Ci arrivano tutti i pullman turistici. Qui si sono installati decine di “intromettitori”: intercettano le comitive sottraendole ai vaporetti del servizio pubblico. Le fanno salire a bordo dei loro grandi motoscafi, chiamati “lancioni”. Maurizio ha descritto la situazione anche nel suo romanzo appena uscito, Nel nido delle gazze ladre (Milieu Edizioni). Fa rabbrividire. Dovrebbe leggerlo chiunque voglia sapere che cosa rischia Venezia e la laguna: un futuro in mano a mafia e ’ndrangheta, che qui intorno sono già sbarcate. Maurizio calcola che il trasporto dei turisti dal Tronchetto a San Marco valga duecento milioni di euro all’anno, incassati in nero.
Mi ricordo il giorno che sono venuto ad abitare in questa casa, qualche anno fa. Ero euforico, e appena ho visto due persone uscire dal portone accanto al mio, mi sono presentato: «Sono il vostro nuovo vicino!» ho detto. Mi hanno guardato senza capire. Erano turisti stranieri: la casa era un bed & breakfast. A pensarci bene, non è stato un equivoco. Erano loro i veri padroni di casa della città, anche se ci sarebbero rimasti per pochi giorni. Si avvicendano di continuo, ma di fatto sono i reali inquilini di Venezia. Io mi illudo di abitare l’Essere, ma sono soltanto un vicino di casa del Divenire. Venezia è un temporary shop per temporary citizens. È impressionante guardare la mappa di case e stanze in affitto turistico. Sono così folte da cancellare i contorni della città. Airbnb a Venezia ne conteggia seimila. Roma ne ha venticinquemila; soltanto il quadruplo, in un territorio cento volte più grande.
Maurizio Crovato, studioso delle tradizioni lagunari e consigliere comunale eletto nella lista del sindaco, cita un dato malinconico: «Ormai la fascia degli ottantenni supera di gran lunga quella di chi ha meno di dieci anni: in città ci sono settemilacinquecento anzianissimi e soltanto seimilatrecento bambini. Significa una perdita di mille residenti all’anno… E poi Venezia costa, richiede continue riparazioni. Le leggi speciali sono nate proprio per questo. Ma da anni, per colpa del Mose, si è pensato che bastasse erogare i soldi per costruire le barriere contro l’acqua alta e non per la manutenzione della città. Quest’anno la tendenza è cambiata, e il governo ha ripensato a un piano di investimenti». Sempre più spesso avvisto dei cormorani nei piccoli canali interni. Si immergono nell’acqua verde scura, riaffiorano in superficie venti metri più in là, ingollando piccoli pesci dai riflessi di metallo. A Venezia c’è cibo per tutti.
Lidia Fersuoch, la presidente della sezione veneziana di Italia Nostra, è la più disperata fra le persone con cui ho parlato. Mi descrive una serie di proposte assurde, devastanti, ridicole, stolte, portate avanti in questi anni. L’ultima ad allarmarla è quella di usare GNL, il gas naturale liquefatto, come combustibile per le Grandi Navi da crociera che entrano in laguna. «Se c’è un incidente può avere la potenza di una bomba atomica». Abitiamo in un fossile urbanistico, dove i turisti sono la regola e i residenti l’eccezione, ci stiamo estinguendo, non abbiamo i numeri per fare massa critica e avere forza politica… «Non resta che vendersi», mi dice Emilio stiracchiandosi nella sua cuccia dietro la lastra trasparente, mentre si fa ammirare dai passanti. È uno splendido gattone grigio scuro, striato di nero, che vive in un negozio di articoli per animali. Gatti nelle calli non se ne vedono più. Si sono messi in vetrina anche loro. No. Semmai vendere cara la pelle.
Lo stanno facendo alcune famiglie di volontari che giorno e notte presidiano civicamente La Vida: stanze e uffici che la Regione Veneto ha venduto a un privato per lasciargli aprire l’ennesimo ristorante. Da settimane qui organizzano corsi di yoga e teatro, ludoteca e letture per bambini, concerti, conferenze. Si scaldano con le stufette a gas e si illuminano con candele e generatori. In primavera faranno un convegno all’università sull’uso collettivo dei beni pubblici. Ma intanto, a fine marzo, sei di loro andranno a processo. Perché è così che The Land of Venice tratta i suoi valorosi sopravvissuti. Sono tante le iniziative avviate in questi anni da associazioni e gruppi di volonterosi. Ma i veneziani sono troppo pochi. Non lasciateci soli.
Le foto sono di Gianni Berengo Gardin
http://www.corriere.it/sette/18_febbraio_22/venezia-88ccada8-1596-11e8-83e1-221a94978c8b.shtml