«La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Dalla Costituente fino all’eterna battaglia esegetica intorno al dettato dell’articolo 9 della nostra Costituzione, il dibattito si è soprattutto concentrato sulla parola «Repubblica »: è lo Stato-persona (cioè lo Stato apparato centrale, in opposizione alle autonomie territoriali), o è invece lo
Stato-ordinamento (cioè tutto il sistema istituzionale, ivi comprese le autonomie locali di ogni grado)? In questi settant’anni (tra sentenze della Corte costituzionale, riforme del titolo V, statuti delle regioni) le risposte sono state diverse, e spesso contraddittorie. Si sarebbe potuto, dovuto, determinare un assetto giuridico che spingesse lo Stato e gli enti locali ad esercitare armonicamente il comune compito della tutela: costruendo insieme una maggiore, e non già una minore, tutela. Nei fatti è accaduto esattamente l’opposto, perché l’assedio giuridico e politico alla «Repubblica» dell’articolo 9 non è stato condotto in nome del diritto dei cittadini a una maggiore partecipazione nella difesa di questi loro beni comuni, ma, al contrario, in nome del consumo di quei beni da parte di amministratori infedeli: insomma, si è colpita la parola «Repubblica» per affondare la parola «tutela».
Si tratta di battaglie difficili, sia che si combattano contro forti interessi speculativi sia che abbiano il loro avversario nella inerzia delle amministrazioni. La loro sola possibilità di successo è incontrare l’interesse della stampa e dunque riuscire a colpire l’opinione pubblica. La politica dei professionisti ha sempre guardato con sufficienza a questo mondo, liquidato anche di recente con battute sprezzanti sui «comitatini » locali. È un grave errore, perché è anche — e ormai forse soprattutto — attraverso questa rete di cittadini che possiamo sperare di salvare la forma (naturale, artistica, culturale) dell’Italia. È attraverso questa spontanea e diffusa magistratura del territorio che la Repubblica, nonostante tutto, tutela.