Paolo Liverani, Palatino, il palco di Nerone inghiotte la chiesa

NERONE ritorna, le persecuzioni non sono finite. “Luogo di preghiera e di silenzio” è il cartello in tre lingue sulla porta della chiesa di San Sebastiano sul Palatino. Immediatamente addossato all’edificio sacro, però, incombe il palco dieci volte più grande della chiesetta, quasi inghiottita dall’ecomostro pronto a ospitare il colossal rock su Nerone. Per tutta l’estate i salmi della

preghiera notturna delle monache saranno cantati al ritmo spaccatimpani del rock imperiale. Facendo tremare le antiche pareti ornate di preziosi affreschi del X secolo.
IL luogo è simbolico: il palco alto quattordici metri ed esteso su mille metri quadrati di superficie occupa lo spazio del tempio che un altro famigerato imperatore, Elagabalo, aveva dedicato nel III secolo al dio solare orientale di cui portava il nome e di cui era sacerdote. Il successore, Alessandro Severo, cambiò il culto dedicandolo addirittura a Giove Vendicatore, nome quanto mai evocativo. Il palco ha più o meno la stessa cubatura del tempio: sembra la vendetta di Giove sui poveri monaci che vi si sono insediati circa mille anni fa. E che ora sono stati sostituiti dalle monache. Secondo la passione — in parte leggendaria — di san Sebastiano, il santo — sopravvissuto alla esecuzione mediante frecce scagliategli dai suoi stessi commilitoni — si mise nuovamente a predicare e, dalle gradinate del tempio, rimproverò aspramente l’imperatore Diocleziano. Uomo anch’esso vendicativo, questi fece catturare il santo una seconda volta e lo fece fustigare a morte gettandolo in una fogna. Ora, con un ritorno di fiamma, Nerone intende riprendersi il colle, cancellando con un tratto di stilo dopo 1700 anni l’editto di tolleranza di Costantino.
Tolleranza zero, dunque, nei confronti di chi osasse criticare un’iniziativa così irrispettosa di un luogo di cultura: per i noti regolamenti censori interni, nessuno in Soprintendenza può esprimere il benché minimo dissenso che traspare evidente dagli occhi muti ed esasperati dei funzionari perché rischierebbe di fare la fine di san Sebastiano di fronte a Diocleziano. Nessun rispetto nemmeno per l’interesse pubblico: alle suore e ai monaci è negata il sonno e la pace notturna, ai visitatori per più di sei mesi — da aprile a ottobre — è occultato il tempio di Elagabalo, l’équipe di archeologi francesi è stata bloccata con le valige in mano mentre stava venendo a Roma per proseguire lo scavo lungamente progettato, il buon gusto dei Romani è offeso da un catafalco roboante sul colle di Romolo. C’è da sperare che le strutture antiche non soffrano troppo di questo uso pesantissimo e assolutamente improprio.
Non ultimo, c’è il danno al bilancio pubblico. La Soprintendenza incasserà 250.000 euro: poco più di 1300 euro al giorno per l’occupazione del luogo più antico di Roma, un prezzo davvero stracciato. Anche se la percentuale sui biglietti rispettasse la stima di un gettito aggiuntivo di 500.000 euro, il conto sarebbe in rosso: la Regione Lazio infatti ci ha messo più di un milione di euro a fondo perduto. Un vero affare (per gli interessi privati) e un autogol — l’ennesimo — per il ministero dei Beni culturali a cui interessa solo il numero dei biglietti staccati, per che cosa e a che prezzo morale e materiale non importa. Dal Consiglio superiore per i Beni culturali finora non si è levato un fiato. Il ministro Dario Franceschini, invece, ha detto che forse ci ripenserà per l’anno prossimo. D’altronde si sa: lo spettacolo deve continuare. Alla faccia del luogo di preghiera e di silenzio.

Repubblica Roma, 31-5-2017,  pp. I e XIII

 

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